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EZIO PETRILLO

81.Alla scoperta dei “vasulari”. Storia passata e recente di Boscoreale

 Immersi nel mondo iper-tecnologico di oggi, spesso tendiamo a dimenticare. Ma non   lo facciamo apposta. Sono i nuovi dispositivi tecnologici che, via via con gli anni, si      stanno sostituendo alla nostra mente. Ne alterano facoltà e percezione. Ma    soprattutto memoria. E senza memoria non c’è storia. E senza storia non c’è  identità.

Pertanto si ritiene fondamentale, per salvaguardare le nostre di identità, ripercorrere  la storia dei luoghi che abitiamo, a partire dagli antichi mestieri. Quelli che, ad  esempio, hanno reso possibile lo sviluppo economico e infrastrutturale dei Paesi  Vesuviani e non solo. Uno di questi è il mestiere del “vasularo”, in italiano posatori    di basoli (o basole) e lavoratori della pietra lavica.

Il basolato è una tipologia di pavimentazione stradale che risale addirittura all’antica Roma. Furono i cittadini dell’Impero di Duemila anni fa, infatti, i primi a beneficiare di questo tipo di manto stradale. Le vie urbane e gli snodi che collegavano Roma al territorio circostante necessitavano di materiali che garantissero durata, resistenza e una certa velocità nei trasporti. Il basolo riusciva a garantire tutto questo. Dalle strade dell’Impero Romano a quelle degli abitanti alle falde del Vesuvio, il comune denominatore è rappresentato dal sudore e dal sacrificio di chi, quelle enormi pietre, le lavorava e le posava a terra.

A Boscoreale, dove si può godere di un suolo fertilissimo e della pietra lavica, evidentemente il mestiere del “vasularo” è stato sempre naturalmente affine al territorio circostante. C’è stato un tempo, infatti, in cui il lavoro era davvero la trasformazione, per mano dell’uomo, di oggetti comuni come le pietre, in beni utili per l’intera collettività, come le strade. La famiglia Martire, ad esempio, ha lasciato preziosa testimonianza dei lavori eseguiti grazie alle mani forti e sapienti dei suoi componenti, quasi tutti “vasulari” come Tommaso Martire (al centro nella foto in basso), ultimo interprete di questo antico mestiere. Strade, banchine di porti, piazze, portoni, ancora oggi rappresentano delle vere e proprie opere d’arte di cui spesso non ci accorgiamo perchè fanno parte di quell’arredo urbano che, con troppa facilità, diamo per scontato.

 La squadra di lavoro

Per poter portare a termine un lavoro imponente come quello di creazione, messa a  terra e movimentazione dei basoli, ci voleva una squadra ben organizzata e affiatata.  Questa era composta dal mastro “vasularo” e due “votta palo” che preparavano,  ciascuno, un piano di posa, sul quale il manovale addetto alla preparazione della  malta versava la stessa. Essi poi vi adagiavano la pietra da posare e la tenevano ferma  con un palo di ferro. In quel frangente, il mastro “vasularo” vi batteva sopra con una  mazza di ferro, da otto chilogrammi circa, per metterla a livello.

Vi era, inoltre, il misuratore che selezionava le pietre da posare scegliendole della  stessa larghezza. Il suo occhio doveva essere molto attento. Se c’era bisogno, infatti, segnava il pezzo in più da tagliare. Tale lavoro era affidato a uno o due scalpellini, detti di “pianta”, i quali avevano anche il compito di preparare il pezzo di pietra per completare le file di basole sui lati, con un pezzo a forma di triangolo chiamato “spighetto”.

Per la movimentazione delle pietre vi erano due portatori che in origine usavano un’asta di legno detta “varra” alla quale veniva agganciata una corda con catena, detta “musciello”. In pratica si imbragava la pietra, che, una volta sollevata sulle spalle, veniva portata sul luogo di posa. Solo in seguito è arrivato il carrellino con le ruote che allievò la fatica dei portatori. Completava la squadra un manovale addetto al livellamento del letto di posa del lastricato, detto “uomo di pianta”.

 

 Gli attrezzi

Gli scalpellini utilizzavano scalpelli di ferro con punte di vario tipo. A punta larga, a  punta fine detti “puntilli”, corti e a punta larga detti “scapezzini”,  mazzuola piccola per gli scalpelli, mazzuola media detta “mazzetta ‘e  spacco” poichè dava il colpo finale dopo aver fatto delle incisioni nella pietra con il  “puntillo” (da “puntiare”, ossia dividere in due parti la pietra da posare). Vi era poi la  bocciarda detta “buciarda” per lavorare la parte in vista delle pietre a buccia più o    meno fine.

Per i posatori, invece, c’era il classico piccone detto “sciamarro”, una mazzuola grossa da 8 kg circa detta “’a mazza”, il palo di ferro detto “’o pal e fierr”, i picchetti e le lenze guida fatte di cordame. Vi erano, infine, gli attrezzi per l’impasto, cioè le pale, la zappa, i secchi in ferro per la malta, i secchi di smidollino per il trasporto degli scarti delle lavorazioni, la carriola, la cazzuola.
Per il livellamento, vi erano altri strumenti detti biffe formate da una tavoletta di legno con palo di sostegno dipinte di bianco, poi c’era il “biffone” che era più alto e fatto con due bande colorate, una rossa e una bianca, sempre su sostegno. L’elemento che sorprende è che gli attrezzi per la lavorazione e la posa delle pietre sono rimasti quasi inalterati per millenni.

I mestieri millenari sono accanto a noi ma spesso non facciamo caso al loro valore storico che viene tramandato da secoli. É tempo di riscoprirli e di ridare una memoria storica alla nostra collettività. Senza identità rischiamo di essere come foglie in balia del vento e degli eventi, quando ci sarebbe bisogno di seminare e far crescere nuovi alberi.

Articolo a cura di Ezio Petrillo

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